Febbraio 1946: Il Radiocorriere pubblica un articolo intitolato "Un accusa che non regge", in cui sui prende atto della difficile situazione della radiofonia: "In sostanza - scrive - C.Boscia- le accuse principali che si muovono oggi alla Radio Italiana sono le seguenti: 1) Il canone d'abbonamento radiofonico è stato elevato a una quota troppo alta; 2) la Radio è gestita in regime di monopolio: ciò che sarebbe - a detta di alcuni - "illiberale" e "antidemocratico"; 3) si trasmette troppa pubblicità radiofonica; 4) taluni (appartenenti in massima parte alla categoria dei meno smaliziati) tacciano di eccessiva tediosità i radioprogrammi". L'articolo si occupa, soprattutto, del punto 1), ossia del canone, che allora ammontava a 420 lire annue ("qualcosa come una lira e quindici al giorno: qualcosa di meno di quanto dareste in elemosina all'accattone all'angolo della strada", spiega impietosamente l'autore dell'articolo). (Radiocorriere 17-23/2/46. Quanto al punto 2) - ovvero alle critiche mosse nei confronti del monopolio Rai - risulta assai rilevante ciò che scrive Franco Monteleone in "Storia della Rai dagli alleati alla Dc" (Laterza 1980, pagg.105 e segg.): "Fin dalla prima metà del '46 l'opinione pubblica italiana aveva guardato con molta attenzione alla possibilità di riconsiderare l'assetto istituzionale della radiodiffusione, anche sotto la pressione di interessi industriali e commerciali di settori che tradizionalmente avevano ricavato dall'esercizio della radiofonia una cospicua fonte di profitto. Queste tendenze orientate alla 'privatizzazione' nascevano da presupposti del tutto diversi rispetto alle ipotesi di autonomia ideativa e amministrativa maturate nella resistenza. In pochi mesi, per iniziativa di gruppi privati che erano riusciti ad eludere le disposizioni della Commissione alleata di controllo, erano sorte nella penisola numerose stazioni radio di limitata potenza. Il fenomeno (anche se non paragonabile all'esplosione delle emittenti libere nella seconda metà degli anni Settanta) presentava caratteri assai simili e in qualche modo anticipatori del boom della comunicazione. Queste 'radio clandestine' - così definite secondo la terminologia fascista ancora in uso - preoccuparono vivamente il ministero dell'Interno e il ministero delle Poste, soprattutto per i riflessi che radiotrasmissioni incontrollate avrebbero potuto avere sull'ordine pubblico. Una precisa diffida era inoltre pervenuta al governo italiano". Il fenomeno, sottolinea Monteleone, era comunque abbastanza limitato, ma dimostra che "le tendenze alla privatizzazione, in un momento in cui stampa, opinione pubblica, Assemblea costituente e governo si ponevano il problema di una revisione della legislazione radiofonica, erano molto forti". Monteleone pubblica inoltre un'istanza al capo dello Stato, inviata da un ente morale, il Radio Club d'Italia, in cui si chiede la revoca della concessione alla Rai. "La concessionaria rispose - prosegue Monteleone - con iniziative concrete. In poche settimane fu istituito un Centro studi radiofonici al quale venne affidato il compito di dimostrare, in base a valutazioni tecniche ed economiche, l'impossibilità di modificare la struttura di radiodiffusione stabilizzatasi dopo vent'anni di esperienza".
Febbraio 1946
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